(Girgenti, oggi Agrigento, 1867 - Roma 1936) scrittore italiano.La vita e la carriera teatrale Nacque nel podere di campagna detto il Caos (un toponimo cui P. dette in seguito un valore simbolico per sé, come individuo, e per la sua opera), da una famiglia della borghesia commerciale di tradizione risorgimentale e garibaldina, tanto da parte del padre Stefano, quanto soprattutto della madre, Caterina Ricci-Gramitto. Preso soprattutto da interessi filologici e letterari, frequentò le università di Palermo, Roma e Bonn; in quest’ultima si laureò nel 1891 con una tesi in tedesco di fonetica e morfologia (in traduzione italiana: La parlata di Girgenti, 1981). Tornato in Italia nel 1892 e stabilitosi a Roma, grazie a L. Capuana strinse contatti con la cultura militante, collaborando con scritti critici e poesie alla «Nuova Antologia», conducendo sul «Marzocco» un’accesa polemica antidannunziana e insistendo in molti interventi su vari periodici sul tema della crisi dei valori di fine secolo, messo a fuoco soprattutto nel saggio del ’93 Arte e coscienza d’oggi.Dopo il matrimonio con Antonietta Portulano, che gli darà tre figli (Lietta, Stefano e Fausto: divenuti poi un famoso pittore quest’ultimo e scrittore l’altro, più noto con lo pseudonimo S. Landi), una crisi delle aziende familiari di zolfo rovinò il patrimonio suo e della moglie (la quale ne ebbe la mente gravemente sconvolta). P. si dedicò allora all’insegnamento e, dal 1897 al 1922, fu professore di stilistica prima, e di letteratura italiana poi, nell’Istituto superiore di magistero della capitale. Venne pubblicando, soprattutto dal primo Novecento, poesie, saggi, romanzi e novelle (che a partire dal 1909 apparivano sul «Corriere della sera»), ma si affermò come autore drammatico (oltre che in Italia, anche in Germania, in Francia e nelle due Americhe) nel decennio successivo alla prima guerra mondiale. Già era stato molto fecondo il decennio 1910-20, dopo l’esordio con gli atti unici La morsa (prima intitolato L’epilogo) e Lumìe di Sicilia, che P. aveva tratto da sue novelle su richiesta di Nino Martoglio, direttore del Teatro minimo; e particolarmente fitto di capolavori il biennio 1916-17, quando apparvero opere sia in lingua sia in dialetto (queste portate al successo da Angelo Musco), da Liolà a Pensaci, Giacomino, alla Giara, a Il berretto a sonagli, Il giuoco delle parti, Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà.Ma inizia col 1921 (l’anno delle clamorose rappresentazioni di Sei personaggi in cerca d’autore) il progressivo consenso del pubblico mondiale, e di gran parte della critica ufficiale, al suo teatro. Nel 1925 P. inaugurò con uno spettacolo di massa, La sagra del Signore della nave, il Teatro d’arte di Roma, di cui fu direttore e regista, ed ebbe fino al 1934 una sua compagnia nella quale spiccò l’attrice Marta Abba; a lei P. dedicò fra l’altro i drammi Vestire gli ignudi (1923) e L’amica delle mogli (1927). Accademico d’Italia dal 1929, gli fu conferito il premio Nobel nel 1934 per la letteratura. La sua biografia registra infine una pubblica adesione al fascismo, che tuttavia non condizionò mai la sua opera di scrittore, inconciliabile con la letteratura celebrativa del regime, anzi perfino corrosiva della sua ideologia e del suo costume. Morì a Roma, mentre stava lavorando al dramma I giganti della montagna.Sviluppo della poetica pirandelliana P. esordì con alcune raccolte di liriche (Mal giocondo, 1889; Pasqua di Gea, 1891; Elegie renane, 1895), cui seguì una traduzione delle Elegie romane di Goethe nel 1896. Ma già poco dopo il suo ritorno a Roma, anche per incoraggiamento di Capuana, si venne dedicando alla narrativa (con il romanzo L’esclusa, 1901, e le prime novelle), passando così dal classicismo intenzionalmente dissonante, ma pur sempre convenzionale, delle raccolte di versi a un naturalismo fortemente contrassegnato da istanze soggettivistiche e da un gusto derisorio e grottesco (per es. nel romanzo breve Il turno, del 1895) che cancellano ogni residuo deterministico, dando risalto all’imprevedibilità dei fatti e del destino, d’ora in poi tema dominante di P. narratore. Fin da queste opere poetiche e narrative affiorano alcuni motivi tipicamente pirandelliani, che impronteranno anche in seguito il suo discorso: la illusorietà degli ideali (nel quadro, fra l’altro, dell’involuzione della vita politica italiana), la solitudine dell’uomo, l’incoerenza e instabilità dei rapporti sociali e, di contro, gli inganni della coscienza e la necessità di una maschera, la disgregazione del mondo oggettivo, l’ironia lucidissima ma spesso alternata a pietà.Nelle opere successive, P. approfondisce questi motivi e supera progressivamente i confini regionali e sociologici del suo mondo, benché il P. siciliano contenga gli altri due strati, l’italiano e l’europeo, che A. Gramsci e poi L. Sciascia in particolare hanno segnalato, valorizzando però l’insularità come nucleo generatore della dialettica e della creatività pirandelliana in tutte le sue espressioni.Tappe fondamentali del processo di interiorizzazione e penetrazione critica che caratterizza l’intera opera di P. sono il romanzo Il fu Mattia Pascal (1904), in cui si coglie la nascita del «personaggio» pirandelliano sulle ceneri della «persona», ovvero di un’autentica identità esistenziale; l’altro romanzo I vecchi e i giovani (1913), amara denuncia delle illusioni risorgimentali e delle speranze tradite dallo stato unitario; e il saggio L’umorismo (1908), enunciazione articolata, storicamente e teoricamente, dell’avvento di un’arte umoristica, scomposta, antigerarchica, in quanto espressione di una «vita nuda», irriducibile all’ordine e fermentante nel «sentimento» (il «sentimento del contrario» proprio dell’umorismo): unica realtà nella caduta delle tradizionali certezze. Il patetico, il comico e il tragico quotidiano sono la materia di questo periodo della produzione novellistica (che verrà raccolta organicamente, nel 1922, in Novelle per un anno).Nei successivi romanzi, Suo marito, del 1911 (racconto a chiave d’ambientazione letteraria), e Si gira, del 1915 (poi ribattezzato Quaderni di Serafino Gubbio operatore), diario di un uomo-macchina che si identifica con l’occhio cinematografico, si accentua la visione di un mondo dominato da condizioni sociali e psicologiche di inautenticità e dal continuo scambio tra realtà e finzione. Tale visione si rivela dialetticamente, e con una logica paradossale e acutamente demistificatoria, soprattutto nelle opere teatrali. Dopo il suo esordio in questo campo, con un repertorio prevalentemente siciliano, che oscilla dal patetismo di Lumìe di Sicilia al vitalismo gioioso della Giara e di Liolà alla beffa macabra della Patente, appaiono via via le opere più mature, pubblicate e rappresentate tra gli anni Dieci e gli anni Trenta: le grandi «parabole» drammatiche All’uscita e Così è (se vi pare), i drammi grotteschi e borghesi (Il berretto a sonagli, Il piacere dell’onestà, Il giuoco delle parti, Tutto per bene, Ma non è una cosa seria, La signora Morli, una e due, Come prima meglio di prima); le tragedie delle forme fisse, immutabili (Enrico IV, Vestire gli ignudi, La vita che ti diedi); la nuova dirompente poetica e tecnica teatrale di Sei personaggi in cerca d’autore, cui seguono le altre due opere costituenti la trilogia del «teatro nel teatro» che apre il corpus delle Maschere nude curato dallo stesso autore: Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto (e in questa fase si colloca anche l’ultimo romanzo di P., Uno, nessuno e centomila, «bilancio ideologico» della tarda maturità). Infine P. approda alla drammaturgia dell’angoscia esistenziale (Trovarsi, Come tu mi vuoi) e della catarsi nell’immaginario e nel simbolismo del «mito»: Lazzaro, La nuova colonia, fino all’incompiuto I giganti della montagna.Il significato storico e la fortuna critica Con la sua vasta opera narrativa, saggistica e teatrale, P. si impone come uno degli autori più importanti del Novecento, non soltanto italiano. L’intellettualismo, l’antiletterarietà, lo scetticismo, il senso della contraddizione, la sfiducia nella «razionalità», la mancanza di ideali, indicati spesso in lui come limiti, furono in realtà soltanto alcuni tra gli aspetti di un’acutissima presa di coscienza della crisi di valori che si era aperta nella società e nella cultura e letteratura borghese uscite dall’Ottocento. In questo senso P. segnò uno dei momenti più alti del decadentismo a livello italiano ed europeo. Il suo sviluppo, fra l’altro, da un terreno veristico e regionale a un’esperienza decadente e cosmopolita, resta emblematico per molti versi. P. ebbe nitidissima, in particolare, la crisi di identità dell’uomo moderno, che non è più «uno», ma «tanti», «secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi» e secondo «quello che gli altri lo fanno»; e nell’uomo, quindi, egli mise in luce la relatività assoluta di ogni atto e pensiero, che nessuno dei criteri tradizionali può ormai discriminare come vero o falso, razionale o irrazionale, normale o folle. I suoi «pazzi lucidi», anzi, anticipano sotto molti aspetti un nuovo modo di concepire il personaggio e il messaggio che egli porta con sé.P. contribuì intimamente alla fondazione del romanzo moderno, facendolo uscire decisamente dalle secche del verismo, e contribuì altresì potentemente alla rottura degli schemi del teatro tradizionale, con innovazioni e sperimentazioni (anche tecniche) tra le più audaci. E al teatro (così come al cinema e alla televisione che rielaborano e insieme divulgano P. come autore di mass media) resta soprattutto affidato il persistente successo dell’opera, in Italia e all’estero. Quanto alla fortuna critica, superate ormai anacronistiche incomprensioni e avversioni (queste di parte cattolica come di parte crociana) e inverate formule di sicura efficacia come quella bandita da Adriano Tilgher, il maggiore ermeneuta del pensiero pirandelliano e del «pirandellismo», P. emerge, attraverso i più aggiornati strumenti di lettura, come un classico della modernità; e altrettanto attuale e provocante si rivela il suo immaginario narrativo e scenico.