Vertere. Un'antropologia della traduzione nella cultura antica
Siamo sicuri che con "tradurre" si intenda la stessa cosa in tutte le culture? Certamente no. Per rappresentare questa pratica, infatti, ciascuna tradizione ha fatto e fa ricorso a paradigmi culturali specifici, spesso anche molto diversi fra ioro. Se noi occidentali, quando "traduciamo", ci immaginiamo di "portare al di là" un certo significato, in India si pensa invece di crearne una "apparenza illusoria"; mentre in Nigeria si tratta piuttosto di "rompere" l'originale per poi "raccontarlo" nella lingua di arrivo. Anche Greci e Romani utilizzarono paradigmi culturali molto specifici - e molto diversi dai nostri - per pensare la traduzione: a Roma quelli della "metamorfosi" (vertere) e della transazione commerciale (interpretari); in Grecia quelli della "riarticolazione" (hermenéia) dell'originale, compiuta nel segno di Hermes, mentre Giudei e Cristiani, alle prese con la traduzione greca della Bibbia (i Settanta), si rappresentarono questa operazione addirittura nei termini mitologici di una "profezia" ispirata da Dio. Fu anzi nel vortice di domande, di risposte e di polemiche che si scatenò attorno alla versione delle Scritture, che il tradurre incorporò alcune categorie le quali, a noi occidentali moderni, paiono ormai inseparabili da questa pratica: come "fedeltà" vs "libertà", "parola per parola" vs "a senso", e cosi via. Tutte preoccupazioni che furono invece sostanzialmente sconosciute alla cultura classica, cosi come ancora lo sono a tante altre culture del mondo.
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Anno edizione:2012
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